Sono stata in silenzio per molto tempo. In realtà, avrei avuto mille cose da raccontare e, nella mia testa, ho immaginato spesso che cosa avrei scritto. Se solo ne avessi avuto la forza. In questo lungo mese, anzi quasi una quarantena, mi sono sentita esausta. Ma non esausta fisicamente, o meglio non solo, più che altro sfinita a livello emotivo. Non sono nuova a questi crolli e ogni volta mi lascio travolgere come se fosse la prima. In questo, non differisco molto dai bambini, ovvero nel riuscire a sorprendermi. Ecco, per loro ha più una connotazione positiva, di curiosità. Nel mio caso, invece, questo stupore è più un riuscire a rimanere di stucco e a vacillare di fronte a sollecitazioni pressoché identiche (con le varianti!). Si accompagna un po’ all’incapacità momentanea di fidarmi di me e di affidarmi alla Vita. In qualche modo, perdo il contatto con me, e con esso, perdo la capacità di sentire la parte guerriera, la mia anima forte e coraggiosa. Resiliente, per utilizzare una parola che mi piace molto.
Cosa mi porta a questi crolli? Non lo so. O meglio, le pressioni sono sempre tante e le paure di fronte a un ignoto che si caratterizza sempre più come tale, senza lasciare spazio per il momento ad alcuna certezza, non aiutano. Che poi, a volte, è meglio l’incertezza che permette di immaginare qualcosa di bello, piuttosto che la certezza di qualcosa che ci opprime e rispetto al quale non vediamo una via di uscita, ma per una maniaca del controllo, quale io sono, aver scelto di vivere senza alcuna certezza non è semplice. Perdonate la digressione, dicevo che le cause sono probabilmente sempre le stesse, e io avrei forse già dovuto “immunizzarmi” (sempre per rimanere in tema!), ma così non è stato e ignoro il perché io non riesca a radicarmi e ad essere imperturbabile, aspettando che passi. Ogni volta, finisco come appesa ad un ramo e oscillo in mezzo alla tempesta. Altro che radici.
Come puoi intuire, sono poco clemente con me stessa. Sono severa, a tratti intransigente. Una signorina Rottermaier. Che disdetta, e pensare che da piccola mi chiamavano Heidi. Il nonno burbero c’era, ma era in città ed era pugliese e mi strumentalizzava per avere i dolci nel giorno del Signore. Diceva sempre, a fronte del tentativo di mia nonna di contenerlo: “Mè, mè…Daniela vuole un dolce”! Devo averne mangiati talmente tanti per compiacerlo (e non solo quelli, il mangiare tanto era il mio modo per essere notata e amata) che adesso non mi attirano per niente e ne mangio pochissimi, per lo più in preda a raptus di ingozzamento.
Mancavano anche Peter, Clara, la natura e gli animali, nonché quella gioiosa spensieratezza. Insomma, a parte il nonno burbero, i pumin (termine piemontese per indicare le gote rosse) e il caschetto liscio di lucidi capelli neri (come io abbia fatto a trasformarmi in una ricciolina con i capelli crespi è un mistero) nulla di me faceva pensare ad Heidi, ma accoglievo di buon grado quel paragone perché lei mi faceva molta simpatia, a parte la vocina della doppiatrice che mi perforava i timpani!
Dicevo che sono sempre stata piuttosto impietosa con me stessa. Mi ripeto senza tregua la teoria, ovvero che non esistono gli errori ma le esperienze, che le crisi sono occasioni. Che ogni cosa ha il suo tempo e che, a volte, per imparare certe lezioni occorre vivere più volte certe dinamiche, sino a che non ci siamo liberati da ciò che ci condiziona e ci fa soffrire.
Tutto completamente inutile. Piuttosto frequente, invece, è il considerarmi una smidollata per non essere riuscita a comportarmi in un modo più “consono” (rispetto a chi e a cosa poi), ma ancor di più il ricorrere all’autosabotaggio. Credo che quasi tutti abbiano sperimentato questa tecnica amabile che induce a punirsi in varie forme. Io sono piuttosto esperta. Se avete bisogno di consulenza perché vi mancano alcuni modi per sperimentarla, non esitate a contattarmi!
Ecco cosa è accaduto in questo periodo di silenzio. Sono crollata perché la centratura non è ancora abbastanza resistente e i meccanismi utilizzati per punirmi sono ancora troppo forti rispetto a quelli utilizzati per amarmi e compiacermi. Invece di rialzarmi piano piano, nutrendomi di pensieri di fiducia e di speranza, ho rimuginato a lungo sulle cause del crollo, su cosa avrei potuto fare per evitarlo, così alimentando ulteriormente quella sofferenza. Questo mi ha portato a uno sfinimento psico-fisico. Quando si va in riserva, cosa che peraltro in passato mi accadeva spesso anche con l’auto, ripristinare il livello di energia non è immediato.
Ma stamane, dopo aver assunto ieri notte una dose di 2 mg di melatonina, rimedio che mi è stato prescritto dal medico solo per i periodi più critici, e aver finalmente dormito il sonno dei giusti, la vita mi è parsa nuovamente meravigliosa (certo non sono ancora in forma, ci vorrà tempo, ma anche questo tsunami è passato). Chi non ha problemi di insonnia, non può minimamente immaginare quanto sia orribile la vita di chi dorme poco o ha un sonno non ristoratore. È come scalare una montagna con le infradito. È una fatica disumana.
Non ho ancora trovato l’antidoto capace di neutralizzare questo veleno. Probabilmente più mi avvicinerò a me e alla mia natura, con i pensieri e le azioni, più questa inquietudine lascerà il posto alla pace e alla serenità. Anzi, ne sono certa.
Quando ho immaginato il mio blog come un diario personale, in cui ti avrei raccontato di me, delle mie esperienze e delle mie giornate, avevo in mente un altro tipo di racconto. Non escludo che arriverà ma per il momento sento di seguire questa direzione e lo faccio. Liberté.
Questa sera voglio lasciarti con una poesia di Rupi Kaur, scrittrice di origine indiana, che amo molto e che ho scoperto grazie al dono ricevuto da Natalia, un’amica speciale:
“Se sei nata con la debolezza di cadere, sei nata anche con la forza di rialzarti”.

Che meraviglia.
La vita è anche cadere. L’importante è rialzarsi con la consapevolezza di essere sempre più forti. E godersi la ritrovata serenità.
Con Amor,
FF